Rizoma freireano 15. Custodire la terra e la sintonia con il vivente: i territori delle donne
- Antonia De Vita
- n. 15 • 2013 • Instituto Paulo Freire de España
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Rizoma freireano 15. Custodire la terra e la sintonia con il vivente: i territori delle donne
Antonia De Vita, Universidad de Verona
Madre Terra e i territori delle donne
Abbiamo assistito in questi anni a molte lotte in tante parti del mondo che hanno avuto spesso come filo conduttore la difesa del territorio e dei suoi beni. Battaglie locali e mondiali fanno emergere una valenza concreta, politica, simbolica del territorio a cui danno corpo e voce le comunità autoctone, che con la loro protesta criticano il suo uso strumentale e mercificato e rivendicano un’anima e una soggettività del luogo e delle sue risorse.
Di questo approccio al territorio e alle comunità, che rende vivi e battaglieri entrambi, vorrei sottolineare il legame con l’impegno ecologista e/o femminista, perché seguendo questa traiettoria è possibile mettere in luce alcuni importanti contributi della riflessione ecofemminista non occidentale. Mi soffermerò in special modo sulla cosmovisione andina della Pachamama, con specifico riferimento alle lotte delle donne per il gas e l’acqua, e poi sulla visione induista della Madre terra, negli esempi portati dalla fisica indiana Vandana Shiva, per concludere con la lettura della filosofa australiana Freya Mathews, che a partire dalla tradizione degli aborigeni australiani sostiene una visione panpsichica della natura e dell’essere indigeni. Queste diverse cosmovisioni sono accomunate da una dimensione sacrale del territorio e della natura e dall’alleanza con le donne come speciali custodi. È attraverso questo ruolo e questa alleanza che le donne stanno costruendo percorsi comuni di dignità e di capacitazione individuale e collettiva (Nussbaum, 2012), e diventando parte attiva nelle battaglie per una giustizia “più che umana”, cosmica. Attorno alla ricerca di ritrovare o non smarrire del tutto le “sintonie con il vivente”, gruppi e comunità stanno ricreando un vivere insieme e un saper fare comune denso di saperi ancestrali e contemporanei assieme. Riscattare le cosmovisioni sacrali del territorio, nel suo legame intimo con la natura, è importante per evitare il pericolo di nuove forme di riduzionismo che consistono nell’approcciare le questioni legate al territorio e all’ambiente in termini di “beni” piuttosto che come tessuto del vivere nella sua integrità.
Per una giustizia cosmica: marciare e lottare
Vorrei portare l’esperienza delle donne boliviane che mettendo in circolazione saperi comuni e collettivi, hanno intrapreso battaglie tanto quotidiane e locali quanto generali e globali per difendere il gas e l’acqua come elementi fondamentali per vivere oltre che come beni comuni.
La Bolivia, così come altri paesi dell’America Latina, è considerata nell’ultimo decennio un laboratorio di difesa dei beni comuni e un esempio per i processi di autodeterminazione dei popoli indigeni. La guerra dell’acqua è partita proprio da Cochabamba nel 2000 per arrivare fino in Italia dopo oltre dieci anni, come pure la guerra di Ottobre 2003, nota come guerra del Gas, che partì da El Alto nei pressi di La Paz. Di grande rilievo sono i processi costituzionali che stanno riguardando tutti i popoli che si sono riconosciuti in un orizzonte comune, riunendosi politicamente ed economicamente nell’accordo dell’ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América). Carte costituzionali che spostano, tra le altre cose, la centralità dall’umano verso la Pachamama, che potremmo tradurre riducendone drasticamente il senso, Madreterra, Ambiente, e sul Sumak kawsay, il Buen Vivir. Due espressioni che condensano le tradizioni secolari dei popoli andini e le loro cosmovisioni fondate su paradigmi “per una diversa umanità” (Benalcázar Alarcón, 2009). Visioni dell’umano e del cosmo differenti da quelli occidentali e che si sono affermate grazie a molte lotte e alla tanta strada che hanno percorso negli ultimi due secoli, non solo in senso simbolico ma concretamente, attraverso marce fondamentali per le battaglie di giustizia e dignità. Dopo la Marcia per il Territorio e la Dignità del 1990, vi sono state altre marce in cui i popoli indigeni hanno cercato di consolidare il loro diritto proprietario sul territorio; così, nel 1996, la Marcia per il Territorio, lo Sviluppo e la Partecipazione Politica dei Popoli Indigeni; nell’anno 2000 la Marcia per la Terra, il Territorio e le Risorse Naturali; nel 2002 la Marcia per la Sovranità Popolare, il Territorio, le Risorse Naturali e l’Assemblea Costituente e nel 2006 la Marcia per la Riconduzione Comunitaria della Riforma Agraria (Roncal Revollo, 2009).
Di recente il dibattito sui beni comuni e la battaglia referendaria contro la privatizzazione dell’acqua, in Italia ad esempio, hanno contribuito ad approfondire una riflessione sulla necessità di rivedere le premesse sulle quali si è costruita la nostra civiltà. Il mondo occidentale si è fondato su una logica antropocentrica con l’essere umano al centro come soggetto unico dei diritti e degli obblighi. Siamo sempre più consapevoli che altri popoli e altre civiltà ci possono insegnare una dignità differente dell’ambiente naturale. “Secondo i popoli originari di Abya Yala (America), la Pachamamaè molto di più che la Madre Terra, è “madre cosmica” o “principio cosmico femminile” (Estermann, 2006, p. 192). Costituisce il tempo e lo spazio nel quale, per il quale e dove si sviluppano le vite; essi stessi si considerano figli e figlie della terra, che provvede alla protezione e all’abbondanza di cibo; è lei che i popoli e i suoi membri devono rispettare e proteggere” (Benalcázar Alarcón, p. 327). La Pachamama è l’universo, la natura, l’ambiente nel quale abitiamo, il visibile; è anche l’etereo, l’invisibile: i valori, l’immaginario, il pensiero, le culture. Universo, natura e umanità costituiscono una unità integrale e integrata e lo squilibrio di uno degli elementi limita la possibilità di esistenza dell’altro. La pacha ha la forma di una casa, è casa di e per tutti gli esseri viventi e rappresenta una relazionalità integrale. Sono perciò le relazioni armoniche tra esseri umani, tra popoli e ambiente naturale ad essere alla base del Buen Vivir. Gli elementi e le condizioni che permettono a tutti gli esseri di vivere sono il cuore della cosmovisione andina e questo ci permette di comprendere meglio perché proprio internamente a queste culture siano state maturate battaglie per elementi essenziali alla vita come l’acqua e il gas.
La “guerra del Gas” delle donne di El Alto
Tra il settembre e l’ottobre del 2003, un mese ricordato come tragico per i 67 morti ufficialmente riconosciuti, la disprezzata città satellite di La Paz, El Alto, cresciuta rapidamente e vertiginosamente, si convertì in una città che poteva riservare sorprese e ammirazione. A dare dignità a questa maltrattata città fu la straordinaria mobilitazione che la vide protagonista di una battaglia durissima per la nazionalizzazione della risorsa naturale gas. Contro l’iniziativa del governo, rappresentato da Sánchez de Lozada detto Goni, che aveva aumentato il prezzo del gas penalizzando in particolar modo la popolazione alteña, gli abitanti di El Alto (tra cui molte donne e nativi), furono particolarmente attivi e si costituirono come veri e propri soggetti politici. Fu un’occasione, come raccontano le donne della guerra del gas con le loro stesse voci, per uscire da una invisibilità e per sentirsi promotrici di pratiche politiche e sociali.
In un prezioso libro nato dall’incontro di molte donne della guerra del Gas e alcune ricercatrici sociali che operano nella città di El Alto, si può leggere un interessante racconto - singolare e corale - di quei giorni difficili, sanguinosi e creativi. Le donne raccontano (Btitto, 2005) che dopo il cosiddetto “ottobre nero” presero a incontrarsi in maniera spontanea e costante molte dirigenti; ci si vedeva tutti i giovedì in uno dei tanti spazi di incontro disponibili che, in questo caso specifico, era il Centro de Promoción de la Mujer Gregoria Apaza. Nacque così l’idea, sempre nei mesi ancora agitati che vanno dal novembre al dicembre 2004, di raccontare in prima persona quello che era accaduto e l’importanza delle donne in questa lotta che era stata quasi completamente occultata dai mass media. Nasce una sperimentazione che riguarda il circolo virtuoso tra pratiche e teorie, tra esperienza e strumenti scientifici. Le protagoniste della guerra chiedono alle ricercatrici di poter contribuire direttamene alla ricerca e di non essere solo un ‘ oggetto di ricerca’. E così, attraverso una serie di laboratori, vengono condivisi gli strumenti di base della ricerca sociale e la narrazione comincia. “Più che dati qui presentiamo una narrazione in prima persona collettiva, una storia che viene da un noi che non rivela né date, né luoghi, né numeri con esattezza, però cerca di dar conto di aspetti generali del lungo processo di recupero del valore di noi stesse, di individuazione di obiettivi comuni e di realizzazione di azioni necessarie per raggiungerli, sottoponendoci nel farlo al dolore, alla pena e alla morte. Questa è una volontà che ha la voce di donna perché sono state e continuano ad essere le più dimenticate e messe in ombra. È una voce plurale perché l’io delle donne alteñe, come loro stesse dicono e fanno vedere, è un io collettivo che parla non solo della condizione di madri, mogli, figlie, sorelle e nonne, ma anche di lavoratrici, dirigenti, studentesse, professioniste, lottatrici, ribelli e guerriere” (Btitto, p. 11). Nelle belle pagine ricolme di esperienze e immagini e gesti di reale coraggio emerge quanto il conflitto sia stato formativo non solo per costituirsi come soggetti politici ma per formare un noi che prima era inesistente. Nei giorni in cui la città di El Alto è bloccata e chiusa per difendersi dagli assalti armati le persone vivono molto con altri e altre per le strade e così nella costrizione e nella necessità si aprono nuove possibilità di relazione e di invenzioni sociali. “Durante la marcia del giovedì 16 (…) non c’era più cibo. (…) Era un lusso in quei giorni avere cibo, però dovevamo in ogni modo trovare bastoni e legni. Eravamo circa 50 persone con bambini, donne e uomini, che stavamo tutti in strada. Una vicina che aveva lì la sua pensione portò lì le sue pentole, i suoi piatti, un’altra vicina portò anche lei un’altra pentolina, un altro cucchiaio, e i nostri visi via via si dipingevano di nero. Era del tutto sorprendente, c’era solidarietà tra tutti. Prima, alle volte, ci guardavamo male tutti tra vicini, ma questa volta eravamo immersi nel tema del gas e nel mandar via Goni” (Btitto, p. 63). Questa testimonianza fa emergere con chiarezza la sorpresa di cosa crea l’in-comune sia nelle relazioni umane, che trasformano tra le altre cose la diffidenza in condivisione, sia nella creazione di un processo politico e sociale che si confronta con l’azione violenta, con lo spargimento di sangue che colpisce i propri cari e coloro che si mettono in prima linea, come hanno fatto le donne. C’ è un uso e un esercizio della forza, che è strettamente connesso con l’esserci e con un esercizio di giustizia (Giardini, 2011) e che si sa confrontare ma non confondere con la violenza come orizzonte risolutivo (Muraro, 2012). La guerra del gas raccontata dalle donne alteñe, racconta tra le altre cose, l’importanza dell’individuazione di un punto di leva per scatenare la giustizia. Lì dove c’è un orizzonte di intelligenza collettiva e di creazione sociale che pensa i singoli inseriti in una visione grande di equilibri e armonia - come sta capitando per questi popoli impegnati nel salvare la biodiversità umana e cosmica e la dignità e la convivenza di popoli differenti - si può giocare con la giusta misura anche lo squilibrio e la lotta aspra. “Ho parlato di una forza che può giustamente ed efficacemente esercitarsi arrivando ai limiti della violenza e perfino oltrepassarli, in certe circostanze. Ma perché abbia senso discutere su questa tesi e vedere se sia giusta o sbagliata, devo chiedermi se ho veramente la capacità di agire con tutta la forza potenzialmente mia, se ne dispongo effettivamente, grande o piccola che sia. Se non fosse così e se questo difetto di energia fosse diffuso, come temo, sarebbe ridicolo cercare un punto di leva, come voler saltare da un letto con le molle rotte” (Muraro, 2012, p. 34). Il punto di leva trovato nelle esperienze boliviane si è sempre abbinato ad un tempo opportuno e necessario per la lotta. Ahora es cuando !”, “Ora è quando ”- “Ora!”,“, è stato il motto di questa e altre lotte, slogan che enfatizza che c’è un tempo opportuno per lottare per la giustizia e la dignità della vita che si misura con l’impiego della forza simbolica e morale oltre che fisica.
Gli eventi legati alla guerra del gas hanno avuto una ripercussione internazionale e hanno contribuito a mettere a tema il bene comune nelle due interpretazioni maggiormente accreditate nel dibattito contemporaneo: commons nell’accezione degli economisti e degli studiosi sociali, intesi come risorsa condivisa che dovrebbe essere gestita dalla comunità di riferimento (Ostrom, 2006), e quella più in uso presso i giuristi che lo legge come un diritto universale (Rodotà, 2011).
Principio femminile e sacralità della vita
La crisi ecologica è, sin dalle sue radici, la morte del principio femminile, simbolicamente ma anche realmente, in contesti come l’India rurale; non solo dunque nelle forme e nel simbolo, bensì anche nei processi quotidiani di sopravvivenza e sussistenza.
(Shiva, p. 54)
Vorrei ora passare a dialogare con alcune importanti riflessioni di Vandana Shiva raccolte attorno alla concezione di una Terra madre(Shiva, 2002) capace di portarci in salvo dal progetto patriarcale della scienza moderna chiamato “sviluppo”. Molte delle idee e dei pensieri della scienziata nascono dalla sua partecipazione alla lotta per la sopravvivenza condotta dalle donne indiane e ispirate dal sostegno alle persone che si battono per sostenere e conservare la vita, ruotano attorno ad una concezione induista di natura vivente prakrti, intesa come processo vitale e creativo, come principio femminile da cui sorge ogni forma di vita (Shiva, p. 7). Dalla filosofia e pratica quotidiana di queste donne nascono delle lotte ecologiche guidate dalla consapevolezza della forza viva della natura e di se stesse come partner della natura nella tutela della vita. “Si è creduto - e in molti ambienti si crede ancora - che sostituire l’idea di prakrti con quella di ‘risorse naturali’, l’ idea di Madre con quella di ‘materia’, significasse sostituire progressivamente la superstizione con la razionalità. Osservato dal punto di vista della natura, o della donna incarnata nella natura, nella produzione e nel mantenimento della vita, questo mutamento è regressivo e violento. Esso comporta la rottura dei cicli e dei processi naturali e di ogni interconnessione. Per le donne, la cui produttività finalizzata al mantenimento della vita si basa sulla produttività della natura, la morte di prakrti significa al tempo stesso l’inizio dei processi di marginalizzazione e svalutazione, destituzione dal loro ruolo e, alla fin fine, la loro messa da parte come superflue” (Shiva, p. 54). Il ruolo giocato dalle donne nella silvicoltura è portato come esempio da Vandana Shiva per fare emergere l’alleanza tra donne e natura e il ruolo centrale della cultura della foresta nella civiltà indiana. La foresta come comunità è stata vista come un modello di evoluzione sociale e civile e dal punto di vista dell’importanza rappresenta il corrispettivo della città per la civiltà occidentale. La dimensione sacra della natura ha dato misura all’evoluzione umana in quanto capace di sintonizzarsi con i ritmi e i modelli naturali dal punto di vista intellettuale, emotivo e spirituale e in questo senso la foresta ha nutrito una civiltà ecologica nel senso più profondo di armonia con la natura e come massima espressione della fertilità e della produttività della terra simboleggiata anche sotto forma di Madre Terra o di dea Pianta.
La ricostruzione di una civiltà fondata sulla foresta serve alla Shiva per mostrare l’esistenza di una cosmovisione che nella sua esperienza è alla base degli attuali movimenti ecologisti femminili; questi rappresentano infatti la conservazione e il recupero del principio femminile e sorgono da una ideologia di liberazione aliena dalle distinzioni di sesso, diversa sia dall’ideologia del patriarcato – fondata sulla discriminazione sessuale – su cui si sviluppa il processo di distruzione ecologica e il dominio sulle donne, sia dalle risposte – sempre basate sulla distinzione tra i due sessi – che l’Occidente ha proposto fino a poco tempo fa. Mettere in luce dunque che molte delle battaglie contemporanee e quotidiane sostenute dalle donne per la protezione della natura hanno luogo nel contesto gnoseologico ed etico delle categorie dell’India antica, restituisce un senso di circolarità a saperi antichi resi nuovamente contemporanei e radicati in cosmovisioni che risultano essere in sintonia con il vivente.
È in questa sintonia che si può costruire e ricostruire una biodiversità cosmica che tiene in sé le biodiversità umane: le condizioni per continuare a vivere ritessendo, come auspica Edgar Morin, una “nuova solidarietà della vita con la terra” fatta di legami con il mondo animale e vivente (Morin, 1994, p. 45). “Ogni vita animale ha bisogno di batteri, piante, altri animali. La scoperta della solidarietà ecologica è una grande e recente scoperta. Nessun essere vivente, neppure l’uomo, può affrancarsi dalla biosfera” (Morin, Ibidem).
Solidarietà con la biosfera, grazia e indigenismo : un altro partire da sé
L’impossibile affrancamento dalla biosfera va tuttavia riguadagnato grazie ad epistemologie del vivente che sappiano proporre, come è stato per le mitologie e le civiltà antiche, percorsi credibili di una nuova identità terrestre consapevole dei suoi rapporti di necessità e di scambio con il vivente. Siamo ancora immersi in epistemologie che screditano questi approcci: “ancora oggi, la filosofia e l’antropologia dominanti rimuovono potentemente ogni presa di coscienza e ogni messa in conseguenza dell’identità animale e vivente dell’uomo, denunciando come “vitalismo” irrazionale o “biologismo” perverso ogni riconoscimento del nostro radicamento terrestre, fisico e biologico” (Morin, p. 49).
Da questo punto di vista l’apporto di studiose ecofemministe, di cui molte non occidentali, è importante perché rappresenta un contributo significativo alla costruzione di epistemologie del vivente. La filosofa australiana non aborigena Freya Mathews (2005) nel suo libro Riabitare la realtà. Verso un recupero della cultura, attraverso la riscoperta della visione degli aborigeni australiani, sperimenta e propone una particolare versione del panpsichismo, che attribuisce una dimensione psichica o mentale a tutta la materia o al regno fisico in generale. Una approccio che permette di re-incontrare la realtà oltrepassando la prospettiva dualista, coltivando un atteggiamento di accoglienza e una accettazione del dato, delle cose così come sono, indipendentemente dal nostro intervento, e lasciando cadere le nostre interferenze. L’autrice discute queste proposte dense di criticità e approfondisce la prospettiva panpsichica come la capacità di entrare in comunicazione con il mondo recuperando, nella dimensione culturale, le modalità della gratitudine da un lato e del “lasciar andare” dall’altra: un recupero della dimensione poetica, della grazia. “La modalità fondamentale della cultura panpsichica è, da questo punto di vista, la grazia. Se cultura è coltivare il terreno della nostra esistenza ed esprimere questo coltivare nelle forme collettive della nostra vita, sollevando così la vita sopra il livello della brutalità, la grazia esprime il senso di gratitudine per l’esistenza che sottende questo coltivare” (Mathews, 2005, pp. 42-43). La grazia è associata alla bellezza, in particolare alla bellezza del movimento. Come tale, la grazia può essere considerata come una manifestazione dello stato taoista di ‘non azione’, che traduce l’esistere e l’ agire entro i limiti del proprio sé e del proprio ambiente, entro i limiti di ciò che ci è dato. Ricostruire tessuti di profonda comunicazione con la realtà significa ricreare nuove fluidità che sappiano portarci oltre le separazione e le frammentazioni che le nostre vite e le nostre giornate hanno subito. È ricercando la fluidità che incontriamo l’ indigenismo e il “diventare indigeni” come possibilità, a partire da dove si è, di passare dal “vedere la vita” a “vivere”. L’autrice racconta la sua scoperta dell’ indigenismo : “Così quando mi si presentò quel periodo di tempo libero, decisi di iniziare proprio là dove mi trovavo a focalizzare la mia attenzione sul grigio quartiere dove abitavo; avrei cercato di averne cura, renderlo un luogo dove vivere ecologicamente. Era senz’altro una causa ecologica persa, ma era la mia. Non avrei mai immaginato che questo tentativo di incantare il mio quartiere avrebbe alla fine incantato la mia vita” (Mathews, Ivi, p. 102). L’esercizio del riconoscersi indigeni del luogo dove si vive apre movimenti e ponti tra parti della vita che rimanevano separate e giustapposte, in primis a partire dall’impiego e dal controllo del tempo. La vita si reincanta a partire dall’ incantare il luogo non ideale nel quale si vive e diventa un modo per rendere il proprio abitare e le proprie relazioni parte attiva della creazione sistemica di contesti condivisi.
La pratica del contesto, un ponte tra luoghi e culture
Il percorso ecofemminista di Freya Mathews aiuta a creare un ponte tra le pratiche delle donne latino americane raccontate all’inizio e le pratiche del “partire da sé”, dalla propria soggettività, e delle “relazioni” proprie del percorso femminista occidentale; il ponte collega un pensiero materiale sistemico della lotta politica delle donne boliviane e indiane (cosmovisioni) a un pensiero più legato all'autodeterminazione e alla libertà soggettiva delle donne occidentali. Il ponte lo ritroviamo nella dimensione del territorio e del luogo. Un luogo che diventa un contesto e che sa farsi una “pratica del contesto” (De Vita, 2009).
Proprio nel contesto (ovunque esso sia) ci si misura con elementi quotidiani che vanno dall'aria che si respira, alla terra che si calpesta, all'impatto ambientale degli stili di vita.
È il contesto, la vita in comune in un luogo - fatto di madre terra, cielo, case, relazioni, bisogni, desiderio di futuro, necessità spirituali - che induce a mettere insieme le visioni con le cosmovisioni e le invenzioni “per un’altra partenza che aspira a congedarsi da forme della politica usurate, per provare a tracciare itinerari che vogliono rilocalizzare assieme all’economia anche la politica, con quel movimento di portare vicino per guardare lontano” (Bertell, Deriu, De Vita, Gosetti, 2013, p. 22). È nella pratica del contesto, fatta di tante pratiche vive, che si dialoga, attraverso una contaminazione pratica e teorica di paradigmi, senza sentirsi tagliate fuori geograficamente e culturalmente, come donne con altre e altri, giocandosi la vita, continuando a custodire la vita.
Bibliografia
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Bertell L., Deriu M., De Vita A., Gisetti G., a cura di, (2013), David y Goliat . La primavera de las economias diversas, Ediciones del Instituto Paulo Freire de España, Xàtiva.
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