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vol 15 • 2013

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Saperi anarchici. Elementi di creazione di un’economia diversa in Sardegna

Saperi anarchici. Elementi di creazione di un’economia diversa in Sardegna

Lucia Bertell con Cristina Cometti

Il fuoco centrale non è impalato nel nome. Esubera dalla distanza del morto, si appoggia al principio della semenza e lì sta in calice sottovento.

Mariangela Gualtieri
Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, Einaudi, Torino 2003

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1. Perché la Sardegna

“Ribelli per forza” è il titolo della prima pagina del quotidiano Sardegna24 del 7 luglio 2011, ancora appesa ad una delle nostre bacheche a ricordare uno dei momenti di fermento che hanno riguardato il territorio sardo negli ultimi anni. Ma anche a evidenziare uno degli aspetti che ci ha interessate di più: la presa di distanza dall’istituzione statale e dalle forme organizzative correnti di protesta, di produzione, di sussistenza.

Cristina, che qui con me scrive, da oltre dieci anni vive in Sardegna. Dal 2001 a oggi abbiamo cercato di capire quale fosse la malìa che ha provocato il passaggio di mare: una terra affascinante? cielo e mare incomparabili? circostanze più favorevoli per la vita del figlio Jacopo?

Tutto questo ma certamente non solo questo. Sono anni che, nelle nostre riflessioni politiche, ci chiediamo cos’altro ha determinato questo passaggio di mare, cosa ha fatto sì che anche io trovassi un forte interesse per le forme sociali ed economiche che, seppur nell’ombra, sono presenti in Sardegna. Da posizioni diverse – Cristina abitandoci, ma con un legame forte di nascita e di radici con il Nordest dell’Italia, io abitando “in Continente” ma con un legame relazionale e un interesse politico per quanto avviene sull’Isola – fin dall’inizio abbiamo trovato indizi di un rapporto tra l’umano e il contesto (ambiente) dotato di una certa autonomia dai modelli economici dominanti, come pure una diversa organizzazione sociale. Entrambe veniamo da un percorso di femminismo ambientalista, Cristina più declinato nella pratica medica io più in quella delle cosiddette economie diverse; entrambe abbiamo subito “annusato” un’aria che aveva a che fare con una nostra ricerca di giustizia sociale e ambientale, un contesto fatto più di “accoglienza archetipica” che di “modernità accogliente”.

Un mondo che ha conservato molto più che semplici tracce di un sistema essenziale, trovando non poche forme di resistenza alla complessità, definendosi attraverso minori mediazioni e sovrastrutture e al tempo stesso essendo immerso in buona parte, contraddittoriamente, nell’attualità consumista e nella dipendenza dall’assistenzialismo. Ma l’annusare non ci ha fatto subito riconoscere e nominare quello che intravedevamo; per capire sono stati necessari i corpi al lavoro nella quotidianità e le difficoltà incomprensibili, ad esempio nelle relazioni con gli uffici pubblici. Perché rimanere? Per rispondere a questa domanda, per aiutare Cristina a comprendere il suo essere e restare lì (nonostante una certa ostilità atavica sarda nei confronti dei continentali immigrati), ci siamo ritrovate a confrontarci, spesso su cosa invece aveva fatto da attrattore e continuava e continua a farlo. Cosa tiene lì lei (la madre e la socia Fiore)? Cosa ha spinto me a creare ponti tra Verona e l’Isola, anche portando al di là del mare la mia comunità di ricerca? È più sugli aspetti di attrazione che ci siamo concentrate, un po’ per proteggerci da un eccesso di complessità e criticità, ma soprattutto per individuare la fonte della resistenza e apprendere ciò che il contesto cela.

I segni rintracciati ci hanno portate così a riconoscere una realtà bidimensionale portata agli estremi: accoglienza e respingenza, statalismo e indipendentismo, natura selvaggia e edilizia deturpante, formalità e informalità, semplicità e complessità, assistenzialismo e autogestione, legalità e illegalità e altro ancora.

2. Saperi anarchici?

(...). Non è questione di fretta. Né voi né io soffriamo della moderna malattia della velocità. Non so chi ha fatto credere che i miracoli esplodano come fulmini. È per questo che non ne vediamo mai. Ma quando si sa che i miracoli si compiono sotto i nostri occhi, con estrema lentezza, ne vediamo a ogni passo. Non è a voi che bisogna insegnarlo, che seminate il frumento, poi gli lasciate il tempo che occorre, e quello germina, e si infittisce come oro sulla terra. (...)

Jean Giono
Lettera ai contadini sulla povertà e la pace, 1938

Alla ricerca di ciò che più ci interessava, scrostando l’apparenza, sostando nelle zone d’ombra e cercando, anche con grande difficoltà, di nominare l’esperienza quotidiana del vivere l’Isola, si sono rese visibili piccole felici sorprese in un cammino davvero impervio.

Abbiamo trovato in questa realtà bidimensionale quello che Ivan Illich chiamerebbe esperienze di “disintermediazione”, cioè, pratiche di maggiore informalità e di minor rapporto con le istituzioni. Il termine «disintermediazione» è stato usato in origine per descrivere il trasferimento di capitali dalle banche e dalle casse di risparmio da parte di gruppi di depositanti che decidevano di cercare guadagni maggiori investendo per conto proprio, scavalcando sempre di più le istituzioni per ottenere con il proprio denaro ciò che desideravano. Illich lo riprende per parlare di coloro che «disintermediano», cioè scavalcano, aggirano, evitano gli specialisti, i sindacati, gli esattori delle tasse, cioè coloro che rappresentano il governo o sono il governo stesso. Questo termine, e le sue diverse declinazioni, ben si adattano a molto di quanto abbiamo trovato sull’Isola: storie di “accabadore”, donne a cui si riconosceva, fino a un passato recente, l’autorità di concedere l’eutanasia; i pastori sardi e la loro cultura indipendentista; le molte attività economiche informali – o meglio, come direbbe Illich, non documentate – dalla piccola produzione di formaggio alla sussistenza permaculturale; dalla stanza in affitto ai piccoli lavori di muratura; dalla raccolta di erbe selvatiche al ricamo di vesti per la festa; dalla produzione familiare di miele alla preparazione di dolci e liquori…

E infatti ciò che affascina e trattiene i continentali sull’Isola sono le zone d’ombra, quelle presenze sociali disintermediate. Quando chi “arriva da fuori” e scommette sul cambio di vita trasferendosi in Sardegna entra in contatto con l’incrosto della complessità, dell’istituzionalizzazione, della formalità, della burocrazia, dell’immagine, dell’identità, del patriarcato, del potere, ha la reazione di chi subisce tradimento da un caro amico: disorientamento, incredulità, rabbia, rancore sono i sentimenti vissuti e raccontati.

C’è un’ampia presenza di continentali sull’Isola, scelgono in particolare le zone dell’entroterra immerse nella natura selvaggia, e quando si chiede loro perché hanno lasciato il Continente, il lavoro, le relazioni per iniziare una nuova vita in Sardegna, la maggior parte di loro risponde “perché qui la vita è più semplice” anche se subito dopo iniziano la sequela rancorosa degli aspetti negativi, aspetti che, comunque, inducono pochi a tornare sui propri passi.

Ma quali sono le esperienze disintermediate e in che contesto politico culturale le troviamo? Intanto vorremmo spingerci a dire che sono esperienze dell’intero sistema vivente: non ci sono solo donne e uomini che fuggono le sovrastrutture professionali e organizzative, c’è anche una natura che ancora in parte resiste alla colonizzazione antropocentrica mantenendo una posizione d’autorità sulla vita di molte donne e uomini.

Le piccole tracce, la sosta nelle zone d’ombra – o, per usare un’espressione poetica che ci piace di più, il fuoco centrale che sta sottovento – ci hanno portato a intravedere elementi di un sapere anarchico antico. Infatti, pur essendo maggiormente esplicitate posizioni indipendentiste, ciò che è apparso è l’anima anarchico-comunitaria che, anche se dall’interno dei movimenti indipendentisti, ha una sua forte, seppur celata, presenza.

L’idea che vogliamo condividere è che il legame tra umani e natura ha resistito qui con un rapporto concreto e diretto (dovuto anche all’isolamento) anche spirituale, creando contesti sociali che hanno mantenuto una loro qualche distanza dall’economia e dalla politica vigenti; distanza che oggi confligge e compete con le forme culturali globalizzate che, in un tempo troppo veloce per una giusta interazione culturale e sociale, hanno “colonizzato” le forme organizzate (in primis istituzionali) dell’Isola. In Sardegna polisè un concetto di recente acquisizione perché l’Isola non ha conosciuto la cultura delle città né il loro predominio sulla campagna e, come dicono gli autori del libro Manifesto delle comunità di Sardegna, il sapere che ne è derivato è stato caratterizzato dal rapporto diretto con la natura e da forme di vita e di apprendimento legate a un “saper fare” connesso ai bisogni fondamentali della vita, diversamente dalle società che si sono sviluppate sulla crescita della produzione di merci.

Ciò che abbiamo potuto osservare – nell’esperienza del vivere quotidiano di Cristina, ma anche dalle interviste delle ricerche condotte tra Veneto e Sardegna di cui poi daremo brevemente conto – è che questa resistenza è interiore e radicata ma affatto consapevole ai più, ed è ipotizzabile che sia il contrasto tra il sé antico e le nuove forme di riconoscimento sociale a produrre disorientamento. Una sorta di schizofrenia che impedisce un reale riconoscimento identitario e sociale e mette in conflitto due mondi. C’è un apprendimento arcaico, dell’essere, trasmesso dalla cultura, dalla lingua, dalle tradizioni, dalla storia, che si è confrontato - in particolare negli ultimi decenni - con la pre potenza della Pedagogia del capitale. L'era del capitalismo globalizzato ha cambiato i riferimenti nella trasmissione dei valori, delle priorità, delle forme organizzative della comunità, delle modalità di relazione, prendendo il posto di pratiche consolidate di autonomia, comunitarismo e mutuo aiuto. Spiga, Masala e Cherchi infatti affermano che così è avvenuto l'inevitabile: inseguendo e copiando usi e costumi altrui abbiamo perso i nostri e non abbiamo raggiunto il cosiddetto benessere degli altri. E anche l'autonomismo, rimasto privo di ragioni, non ha potuto che estinguersi.

I nostri occhi e l'esperienza di “straniere” hanno raccolto ciò che antropologi studiosi della Sardegna hanno raccontato come “percorso comunitario, lunghissimo accidentato e occultato, che conduce fino ai problemi del presente”. I sardi parlano di cultura nuragica e agropastorale per indicare un processo storico che ha come elementi caratterizzanti una forte dimensione comunitaria, mutualista, ecosistemica, paritaria e orizzontale: tutte caratteristiche proprie dell’esperienza anarchica.

Ma di anarchismo non si parla volentieri. Usato in senso negativo fino al 1840 per il suo significato etimologico, “contro l’autorità”, è stato riscattato da Pierre-Joseph Proudhon “per descrivere la propria ideologia politica e sociale, con la quale sosteneva che un’organizzazione priva di governo era non solo possibile ma anche desiderabile”. Da allora ad oggi l’anarchismo non si è comunque smarcato dalla caricatura negativa fatta nel passato e al tempo stesso le sue idee e le sue pratiche hanno trovato terreni fertili in correnti esplicite del movimento anarchico (anarco-comunismo, anarco-sindacalismo, individualismo anarchico, pacifismo anarchico, eco-anarchismo, anarco-femminismo e via di seguito) ma anche nelle forme “sottovento” di movimenti e gruppi di pratiche che negli ultimi secoli hanno creato contesti, spazi, comunità che hanno segnato una differenza (in maniera conflittuale) con il sistema capitalistico dominante.

È qui che abbiamo trovato un punto di forte contatto tra alcuni saperi rintracciati sull’Isola e i saperi anarchici ma siamo rimaste volutamente leggere nel titolo di questo scritto, parlando di “saperi anarchici” e non di palese ideologia o movimento. È come se le forme di sapere anarchico conosciute avessero trovato e ridato nome a forme già esistenti che per tradizione e storia portavano altri nomi. È come se da “straniere”, portatrici di un’altra lingua, ci fossimo intese con alcune e alcuni degli ospiti attraverso l’esperienza. È come se ciò che ci ha attratte dell’Isola avesse avuto a che fare con questi saperi, con queste coordinate sociali, mentre ciò che ci ha stordite, disorientate è stato il prodotto del mondo globalizzato “calato” nella società sarda in un tempo troppo veloce.

Persino nei testi che ricostruiscono le forme sociali e organizzative sarde, si ritrova questa dicotomia; da un lato libri che esprimono il frutto dell’idea capitalista, intrisi di concetti legati alla crescita economica, al mercato globale, allo sviluppo infinito; dall’altro libri della cultura dell’origine che affermano l’autonomia dell’Isola, il fare per vivere, l’autarchia, la resilienza, la comunità, l’importanza della terra e dei suoi frutti. Da un lato una bibliografia mainstream in linea con la “scientificità” occidentale, dall’altro testi di resistenza, di antropologia, di autorappresentazioni endogene. È così che, come spesso è successo nell’esperienza delle ONG con progetti nei paesi latino americani, anche a fin di bene, si creano induzioni culturali o misconoscimenti identitari.

È così che, ai nostri occhi di osservatrici interessate, queste due anime della Sardegna, quella ombreggiata e sottovento e quella ostentata e modernizzata, hanno cominciato a parlare con più chiarezza, spostate da un’idea semplice (o semplicistica) che aveva orientato le nostre aspettative a uno sguardo sulla complessità. Ospitate dai saperi a cui siamo riuscite a dare un nome e da donne e uomini con cui siamo riuscite a parlare una lingua comune, l’agio di stare ha donato i motivi per restare. Il difficile accesso a contesti disorientanti, fatti di accoglienza ma di repulsione, di originalità ma di estraneità, di verità ma di artificio, ha dato spazio alla consapevolezza di entrare in contesti disorientati fatti da donne e uomini radicati nella tradizione ma vestiti di modernizzazione e incapaci di vero bilinguismo.

3. Paradigma della modernizzazione e paradigma della tradizione

La Sardegna è stata terra di conquista nel corso dei secoli (fenici, romani, pisani, spagnoli, piemontesi, qualcuno direbbe Italiani e anche americani, a causa delle numerose basi militari presenti sull’Isola) e i sardi, spesso, hanno subito le invasioni ritirandosi nell’entroterra. La questione dell’autonomia sarda ha una storia più recente rispetto alle invasioni storiche e Gianfranco Contu e Francesco Casula affermano che è con l’unificazione d’Italia che la “questione sarda” esce “dal vago, per acquisire un’immagine più concreta. I primi governi italiani indirizzarono i loro strali contro l’ultimo degli istituti comunitari che era sopravvissuto alle varie leggi piemontesi emanate nella prima metà del secolo: quello dei « beni ademprivili» (che consistevano nel diritto delle popolazioni all’uso gratuito della raccolta della legna, dell’acqua e del ghiandifero nelle terre demaniali)”. Molti politici, tra il 1869 e il 1896, si dedicarono alle istanze sarde, Mazzini compreso, ma senza risultato e il malcontento delle popolazioni rurali fu tale che si arrivò a vere e proprie sommosse, culminate con i moti di “su connotu”. Contro la nuova legge dello Stato considerata iniqua protestarono in molti ma la questione sarda entrerà nel nuovo secolo XX ancora irrisolta.

Anche Benedetto Meloni, sociologo e studioso della Sardegna, dal suo osservatorio ci dice di un ulteriore strappo culturale, ovvero dell’imposizione culturale istituzionale che spiegherebbe perché un autonomismo così radicato ha avuto di recente effervescenze maggiori. È alla fine degli anni ’50 che trova posizione di dominio intellettuale il paradigma della modernizzazione, centrato prevalentemente sulla contrapposizione, di matrice funzionalista, tra tradizione e modernità. Il tipo ideale di modernizzazione è quello legato all’urbanizzazione, all’industrializzazione e all’innovazione tecnologica “attraverso un processo di individualizzazione, che richiede il distacco dalla tradizione e il venire meno delle funzioni locali come tappa necessaria sulla via del raggiungimento di una società moderna occidentale. Le appartenenze locali vengono espunte perché considerate negative: la famiglia, la comunità locale appaiono caratterizzate esclusivamente da particolarismo e, in quanto tali, sono tematizzate come ostacoli da aggirare perché non si ritardi il processo storico di sviluppo”. In quegli anni Governo e Cassa del Mezzogiorno investono sul Progetto Pilota Sardegna dell’Oece (Organizzazione Europea Cooperazione Economica) con l’intento di sviluppare economicamente l’Isola secondo il modello dominante, pur con l’ambizione di partire dal basso e dall’esistente, capacitando le comunità locali. Ma, come sappiamo, urbanizzazione e industrializzazione non hanno trovato lo stesso terreno fertile che altrove e molti studiosi hanno parlato di “effetti distorsivi” sulla società locale di questo piano di rinascita in Sardegna, osservando che “la (non dimostrata) incapacità del sistema locale di generare crescita, ricchezza e persino sviluppo, diventò l’alibi che la classe dirigente utilizzò per intrecciare relazioni davvero pericolose con potenti lobby interessate allo sviluppo chimico italiano”. Suggerisce, neppure velatamente, Francesco Pigliaru, che è così che la grande industria, complici le istituzioni, sbarcò sull’isola e migliaia di lavoratori furono reclutati per un lavoro salariato. Furono investite, tra l’altro, forti risorse pubbliche con il Progetto Pilota, progetto che avrebbe dovuto durare una decina d’anni ma che Governo e Cassa del Mezzogiorno fecero chiudere dopo soli quattro anni, quando il processo di avvio delle stesse comunità locali era appena all’inizio. In questo modo il Progetto pilota, nato con l’obiettivo di sollecitare l’avvio di imprese locali fedeli alla tradizione sarda, diventò la testa di ariete per l’insediamento di colossi prevalentemente del settore chimico del tutto estranei al contesto umano e ambientale.

La storia delle progettazioni per lo sviluppo della Sardegna è proseguita fino ai giorni nostri (per l’Europa molte zone della Sardegna sono ancora a obiettivo 1), troppo spesso generando il fallimento dell’ “integrazione economica” della Sardegna con la cultura economica dominante. Per usare una immagine cara alla studiosa americana Seyla Benhabib, possiamo dire anche che ciò che ci disorienta è una sorta di “multiculturalismo a mosaico” in cui culture così diverse stridono e non trovano un’armonica tessitura.

4. Sapienza anarchica: conferme da una ricerca sulle Economie diverse

Forse è un azzardo parlare di sapere anarchico, ma ci sembra di poter comprendere così quanto nella cultura sarda è definito come sapere tradizionale. Anarchia, per noi che scriviamo, non è una teoria codificata ma qualcosa di sensibile e quotidiano, che sta nella pratica e nel desiderio di molti e diventa pensiero comune; d’altronde, anarchia è una parola che raccoglie pratiche umane antiche come il mondo.

Da una recente ricerca condotta da ricercatrici e ricercatori del gruppo interuniversitario TiLT (Territori in Libera Transizione) tra i territori di Verona, Parma, Iglesias e Nuoro sono emerse delle sensibili differenze tra i saperi che circolano nelle due province prese in esame in Sardegna (Iglesias e Nuoro) e quelli delle due province del Nord d’Italia. Rimandiamo al volume citato in nota per il confronto tra territori e qui ci concentriamo su quanto emerso in Sardegna che porta conforto all’ipotesi sui saperi anarchici presenti sull’Isola, saperi che danno continuità, attraverso pratiche innovate e contestualizzate ai giorni nostri, alla sapienza antica e alla tradizione; tradizione nel senso più alto del termine, non ci riferiamo certo alla tradizione folkloristica venduta dai tour operator. E sono pratiche che hanno dato vita a forme di economia collettiva attraverso un lungo processo culturale e sociale, i cui protagonisti si stanno anche confrontando con movimenti portatori di analoghi propositi oltre mare.

È come se, per dirla come direbbe Antonia De Vita, ci fosse stato un processo di creazione sociale, un processo fatto di tempi umani e di relazioni (in questo caso Benhabib parla di “comunità conversazionali”) che a partire dalle condizioni presenti, dal contesto, dai fattori umani, dalle relazioni, dai valori irrinunciabili, ha dato vita a qualcosa di nuovo che mantiene un forte rapporto col passato e al tempo stesso sta, seppur con difficoltà, nel presente.

Ciò che ne emerge sono pratiche sociali che sono state chiamate Economie diverse per indicare un orizzonte di valori diverso da quello espresso dalla Pedagogia del capitale. E infatti sempre De Vita parla di Pedagogia della creazione sociale per nominare imprese collettive portatrici di saperi anarchici (come li intendiamo noi): Umberto produce pane biologico e spinge i giovani del suo territorio a coltivare l’antico grano Cappelli; Tobia produce carciofi biologici e fornisce alcuni Gruppi di Acquisto solidale nel Nord Italia; le donne di Domus Amigas ospitano nelle case facendo sviluppo locale e salvaguardia del territorio; le donne di Aghe natura e cultura – Cristina è una di loro – offrono ospitalità in campagna abbattendo barriere architettoniche e culturali; Marisa è fiera di aver trasformato l’azienda paterna in una delle prime aziende biologiche della Sardegna; Maurizio, insegnante, dedica grande cura alla rete Biosardinia; Alessandro, permacultore, da buon educatore, sa che passare dall’esperienza è la prima tappa per trasmettere i saperi del legame con la terra.

In tutte queste esperienze raccolte dalla ricerca l’aspetto della socialità è forte, c’è uno scambio di saperi molto legato al fare insieme. Il fare insieme diventa “un’opera” individuale riconosciuta ma anche condivisa ed è questo particolare sapere e saper fare che restituisce l’identità depredata dal sistema capitalistico.

Siamo in presenza di gruppi che si auto sostengono in virtù di relazioni consolidate e basate sulla fiducia. Qui la giustizia sociale è interpretata come la scelta migliore per l’ambiente che è parte integrante delle singole esistenze: qui, in campagna, c’è un rapporto fisico diretto con la bellezza e la durezza della terra. L’avvio delle attività avviene anche in modo informale. Le difficoltà di chi ha fatto una scelta imprenditoriale vengono tenute nel processo di condivisione. C’è la consapevolezza che curare l’ambiente vicino e avere uno stile di vita sobrio ha ripercussioni anche lontane e rispetta chi sta dall’altra parte del mondo. Lo sviluppo, oggi accompagnato dall’aggettivo sostenibile, è un fantasma ancora sbandierato dalla classe politica per l’arricchimento dell’Isola e viene denudato nella sua pretestuosità da chi partecipa a questi gruppi.

Molto tempo è dedicato alle relazioni, allo scambio e alla difesa di un’economia semplice ancora possibile e forse sempre più necessaria. C’è il desiderio di dare valore all’esistente in contrapposizione alla cultura e all’immaginario dello sviluppo.

5. La ricchezza del “vernaculum” ovvero del “cum munus”

Nelle lunghissime discussioni con Cristina, da quando lei vive in Sardegna, spesso ci siamo trovate di fronte a un muro invalicabile. Come se il confine della nostra tessera di mosaico, per tornare all’immagine di Benhabib, ci stesse mostrando l’impossibilità di un cambiamento perché la tessera del mosaico confinante, quella delle ragioni del mercato capitalista, mostra profili non contrattabili.

La via trovata – che ogni tanto riperdiamo – è quella di stare al nostro posto. Sì, semplicemente stare al proprio posto e non farsi portare dove non si vuole andare. Questo è stato un vero apprendimento perché la colonizzazione della mente fatta dalla Pedagogia del capitale ci porta a vedere le cose senza via d’uscita, paralizzando le potenzialità e i desideri di tanti di noi. Lo slogan Tina (There Is No Alternative), tanto enfatizzato dai Governi, ci conduce per mano nel territorio del consumo coatto, dello sviluppo apparente, dell’individualismo sfrenato, del benessere merce, delle infinite opportunità apparenti. Ma questa non è la verità. La verità è che l’alternativa esiste e noi ne facciamo parte, ma, per creare un luogo di scambio politico tra Pedagogia del capitale e Pedagogia della creazione sociale, ognuno deve stare al proprio posto. E il nostro posto è fatto di saperi anarchici, di “vernaculum” e di “cum munus”.

Cioè il nostro posto – reale, culturale, simbolico – è una lingua elementare (fondamentale, radicale, in cui la parola è bastevole come la stretta di mano) ed è il dono, lo scambio nella fiducia reciproca.

Se stiamo al nostro posto siamo a casa e la nostra casa e le nostre relazioni sono già il mondo. Se stiamo al nostro posto possiamo partire e andare altrove e avere un luogo dove tornare. Abbiamo aperto con Ivan Illich, la cui erudizione critica tante volte ci ha fornito chiavi di interpretazione, e vorremmo chiudere con lui. La casa per Illich è il luogo del “vernaculum”. “Vernaculum è un termine tecnico che proviene dal diritto romano, dove compare a partire dai documenti più antichi e sino alla codificazione compiuta da Teodosio. Indica l’opposto di una merce: «Vernaculum, quid quid domi nascitur, domestici fructus; res quae alicui nata est et quam non emit» (Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinatis, VIII, p. 283). «Vernacolare » si dice dunque delle cose fatte in casa, coltivate in casa e non destinate al mercato, ma al solo uso domestico”.

Ci piace ricordare che il significato etimologico della parola “comunità” deve alla preposizione latina cum, l’indicazione del legame, e comprende la parola munus, che significa dono. Se stiamo al nostro posto fisico e simbolico, facendo comunità e scambio non monetario di cose, gesti e idee, siamo a casa nel mondo: un’azione giusta qui in senso ecosistemico è un’azione planetaria.

Si fa politica partendo da sé.


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